martedì, novembre 29, 2016

Il gusto italiano in Giappone

Riporto qui un bellissimo articolo di Paolo Massobrio sul sito "Il Golosario" che testimonia i frutti di un grande lavoro di rinascita della cucina italiana.

Il cambiamento della cucina italiana nella relazione di Paolo Massobrio domani alla Camera di commercio Italiana in Giappone (ICCJ) nella sede di Tokyo. Ecco uno stralcio dell’intervento.
Continua il viaggio di Paolo Massobrio in Giappone. Dopo aver presieduto la giuria a concorso di cucina italiana interpretata da giovani chef giapponesi, domani sarà alla Camera di Commercio di Tokyo per raccontare agli operatori la rivoluzione che ha coinvolto l'enogastronomia italiana negli ultimi decenni. La presentazione si svolgerà nel contesto di un mini evento
Ecco uno stralcio dell'inetrvento:

“Il cibo, e con esso anche il vino sono stati al centro di una vera rivoluzione dei consumi in Italia, capace persino di cambiare i volti dei centri storici delle città e dei paesi. [...] La prima rivoluzione, innescata da un cuoco italiano, Gualtiero Marchesi, è stata quella di proporre un ristorante dove i piatti della tradizione venivano alleggeriti. Non so quanto Marchesi avesse presente che quella sua provocazione sarebbe stata il futuro.

[…] Ma intanto cresceva la moda del ristorante, come luogo di convivialità, dove veniva proposta un menu con quattro portate, declinato anche in menu degustazione. Ma sarebbe durato poco: i ristoranti hanno virato verso la bistronomia, ossia un locale più informale, accanto a quello storico, dove poter ordinare anche un solo piatto. L’evoluzione, che abbiamo raccontato recentemente a Golosaria è tuttavia un’altra: la possibilità di portarsi a casa un piatto o addirittura gli ingredienti per comporre un piatto. E questo andrebbe incontro a due esigenze: quella dei nuovi consumatori che hanno sempre meno tempo per fare la spesa e i ristoranti che altrimenti non riuscirebbero a vendere un piatto in più, pur avendo i costi fissi che pesano sul bilancio aziendale. Ma in questi ultimi due anni sono nati anche nuovi format di locali. Uno è ispirato alla cucina di strada, che punta ad offrire una specificità regionale, anche attraverso dei truck; l’altro sono le Ciberie, ovvero i negozi (pasticcerie, macellerie, panetterie, pescherie) che estendono la loro offerta dando da mangiare e da bere. Se si osserva il centro di una città come Milano si assiste ad un vero e proprio boom di questi modelli, che a mezzogiorno, spesso, mettono in crisi il ristorante tradizionale.

Ma negli Anni Novanta c’è stata un’altra importante rivoluzione, spinta da una generazione di giovani che hanno scelto di tornare in agricoltura o nell’artigianato alimentare. I negozi degli alimentari, presenti in ogni paese piccolo o grande che fosse si sono trasformati in boutique del gusto, mentre i bar sono diventati wine bar. Cosa significa questo? Che finalmente, col tramonto del cibo e del vino come mero alimento si andava verso il cibo ed il vino come piacere, convivialità, esigenza di avere nuovi luoghi di incontro. E tutto ha iniziato a trasformarsi in nome della distinzione qualitativa, fino a cambiare gli stessi aspetti delle piazze e dei paesi. Fu un tale Giorgio Onesti, che negli anni Ottanta si mise in viaggio per l’Italia a scoprire le specialità che venivano prodotte nel mondo contadino. Quando trovava qualcosa di interessante ne ordinava mille pezzi che poi avrebbe collocato nei negozi di alimentari. Facendo così, Giorgio Onesti anticipò i tempi, offrendo poi ai giorni nostri lo sviluppo di quelle che a Golosaria Milano abbiamo battezzato le Ciberie.

[…]  Col vino è successa la medesima cosa. ...
continua la lattura su "www.ilgolosario.it"

Telefonami tra vent'anni e The Nineties Dream

Sabato 17 dicembre alle 18 nel nuovo spazio condiviso WIP in via Cantova, 30 nel centro storico di Verbania-Intra
ci sarà la presentazione di "Telefonami tra vent'anni", il primo romanzo di Barbara Vesco.
In una chiacchierata con l'autrice si svelerà qualche particolare del libro ambientato anche sul Lago Maggiore.

Il tutto sarà impreziosito da un'importante collaborazione!!
Chi ha vissuto intensamente gli anni '90 avrà la possibilità di rivivere ricordi ed emozioni anche attraverso le evocative immagini della mostra fotografica "The Nineties Dream" a cura di Daniela Meneghin e Lorenzo Camocardi.

Daniela Meneghin, fotografa verbanese, in collaborazione con lo studio "Photo Video Grafic" di Lorenzo Camocardi, ha voluto reinterpretare visivamente i periodi citati nel libro di Barbara Vesco, rivisitando la figura della mitica Barbie, ambientandola tra oggetti e visioni del sogno degli anni '90.

Al termine della presentazione rinfresco con gli ottimi prodotti de "La cantina del Verbano" e la musica di Miky Salentino di Studio Star Fm.

WIP:
L’idea è quella di condividere uno spazio grande e funzionale con servizi di qualità, composto da postazioni di lavoro con wi-fi, una zona riunioni, una sala polivalente e una biblioteca d’arte e design.
Il concetto è di uno spazio in divenire, in costruzione, in cui ogni spunto può prendere forma e trasformarsi in una mostra, in un’installazione, in un momento di musica o di altra espressione artistica.
Lo spazio sarà tanto più efficace quanto più riuscirà a far rete con ognuno di voi e con la vostra partecipazione.


www.barbaravesco.it
www.lorenzocamocardi.it
www.lakeside.vb.it

tra20anni@gmail.com
info@lorenzocamocardi.it
wipverbania@gmail.com
Guarda l'evento su Facebook 


sabato, novembre 26, 2016

Facciamo Finta - ft. Carlo Pastori & Walter Muto

Dal blog di Tappeti Sonori

In una tranquilla mattina di ottobre, Carlo Pastori & Walter Muto passano in studio a trovarci. Approfittando della loro disponibilità, abbiamo testato una registrazione all’aperto sui nostri tetti: un microfono, una videocamera, nessun taglio video, nessun effetto audio… uno splendido brano di Niccoló Fabi e un’ottima interpretazione! Questo il risultato:


L'italiano che ha inventato la CPU

Quella che sto per raccontarvi è una storia tanto affascinante quanto sconosciuta ai più.
La nascita del microprocessore cosi come lo conosciamo, quello che oggi troviamo all’interno dei nostri computer, la dobbiamo a Federico Faggin, un fisico italiano naturalizzato statunitense.
Federico Faggin nacque a Vicenza il 1° dicembre 1941 e nel 1960 conseguì il diploma di perito industriale specializzandosi in radiotecnica, all’Istituto tecnico Industriale di Vicenza.
Iniziò subito ad occuparsi di calcolatori presso la Olivetti di Borgolombardo, all’epoca tra le industrie all’avanguardia nel settore, contribuendo alla progettazione ed infine dirigendo il progetto di un piccolo computer elettronico digitale a transistor con 4 K per 12 bit di memoria magnetica.
Si laureò in fisica con lode nel 1965 all’Università di Padova, dove venne nominato assistente incaricato.
Nel 1967 venne assunto alla SGS-Fairchild (che poi divenne STMicroelectronics) ad Agrate Brianza, dove sviluppò la prima tecnologia di processo per la fabbricazione di circuiti integrati MOS (metallo-ossido-semiconduttore) e progettò i primi due circuiti integrati commerciali MOS.
La SGS-Fairchild inviò Faggin presso la sua consociata Fairchild Semiconductor, azienda leader del settore semiconduttori a Palo Alto in California, (Già, proprio l’azienda di Moore) dove ebbe la possibilità di continuare il suo lavoro sulla tecnologia MOS, e sullo sviluppo della tecnica della “porta al silicio” (silicon gate) usando come conduttore silicio drogato anziché alluminio
Ma la vicenda che qui ci interessa ha inizio quando Faggin lascia la Fairchild per entrare a far parte di un’altra società operante nella Silicon Valley, la Intel.
All’epoca, Intel era una piccola società che aveva un grande asso nella manica, le “memorie a semiconduttore”, le cui vendite andavano benissimo, e ne garantivano il fatturato, e che andavano sistematicamente a sostituire i tradizionali anellini di ferrite.
Prima delle memorie prodotte da Intel si utilizzavano minuscoli anelli di ferrite, ad ogni bit di memoria corrispondeva un anello di materiale ferromagnetico, che veniva magnetizzato in un verso o in quello opposto.
La rivoluzione rappresentata dalle memorie Intel fu evidente da subito, e generò un grande volume di vendite.
Faggin entrò in azienda in un periodo molto particolare, nel 1969, la Intel aveva ricevuto l’incarico dall’azienda giapponese Busicom, per la realizzazione dei chip necessari a costruire una macchina calcolatrice programmabile.
Il progetto, in mano ad un ingegnere ed un programmatore Intel rimase a lungo senza sviluppi, tanto che la stessa Busicom fu ad un passo dal rescindere il contratto.
Questo settore era considerato dai vertici di Intel, assolutamente secondario rispetto al business delle memorie, per questo motivo, la direzione del progetto venne allora affidata al giovane e neo assunto Faggin, (probabilmente perché la sua inesperienza avrebbe funzionato bene come capro espiatorio, di fronte alla ormai quasi inevitabile perdita del progetto) ma il fisico italiano, non perse tempo, ed avviò subito la progettazione dei chip, integrando la tecnologia MOS, di cui egli era ormai un vero esperto.
Vennero creati quattro moduli, che poi saranno denominati con le sigle da 4001 a 4004, i primi tre erano dispositivi di memoria (ROM, RAM e registri) relativamente standard; il quarto, denominato 4004, costituiva una unità centrale di elaborazione (CPU) completa di tutte le sue parti, per la prima volta realizzata nella forma di un unico integrato
L’idea del “computer on a chip” cioè realizzare tutte le parti essenziali di un calcolatore in un unica lastra di silicio, era già nell’aria da qualche tempo, ma fino ad allora non era mai stata realizzata.
Faggin, riesce a centrare l’obiettivo, lavorando (racconterà poi in un intervista) tra le dodici e le quattordici ore al giorno per diversi mesi consecutivi, apportando contributi fortemente innovativi sia a livello circuitale sia riguardo la tecnologia degli integrati: Egli progettò sia la logica del sistema che i circuiti, disegnò i quattro integrati che li realizzano, costruì anche gli apparati di prova necessari per i test.
La consegna del prodotto al committente avvenne nel febbraio 1971. Il modulo 4004, che sarà poi battezzato come “microprocessore”, impiegava 2300 transistor MOS, contro le decine di milioni usati nei microprocessori moderni, occupava un’area di 3x4 millimetri quadrati, e su di esso si dice che Faggin impresse la sigla “FF” le sue iniziali, ed era in grado di offrire una potenza di calcolo comparabile a quella dell’ Einac.
Una curiosità che vale la pena di menzionare è che il 4004, venne montato negli apparati di bordo della sonda spaziale Pioneer 10, lanciata nel febbraio 1972, fu il primo microprocessore ad allontanarsi dalla Terra fino a raggiungere la fascia degli asteroidi, situata ancora più distante di Marte.
Negli anni successivi Faggin seguì come supervisore lo sviluppo di altri due microprocessori. Questi dispositivi, denominati 8008 e 8080 a 8 bit, sono i progenitori della famiglia dei microprocessori più usati oggi, cioè quella che ha condotto Intel al successo. 
Come molti geni del settore, anche Faggin, ebbe una chiara visione delle prospettive del microprocessore.
Egli prospettò l’utilizzo di questa tecnologia anche al di fuori delle macchine da calcolo, intendendolo come un dispositivo programmabile per differenti apparati di controllo, e con potenzialità d’impiego molto vaste.
Questa sua teoria, inizialmente non venne condivisa dagli altri dirigenti di Intel, ma si verificò esatta, quando egli trasformò i quattro chip sviluppati per la società Busicom in un chip set di impiego generale (che venne battezzato MCS-4), che potesse essere utilizzato per il  controllo di altri apparecchi.
Il successo commerciale delle sue teorie convinse e fu determinante nella strategia commerciale di Intel.
Una nota storica ci riporta che ufficialmente, la paternità del microprocessore non venne attribuita a Faggin, ma a Tef Hoff, (l’assegnatario originale del progetto per la Busicom), solo diversi anni dopo, venne riconosciuto il valore del lavoro del fisico italiano.
Nel frattempo però Faggin aveva già lasciato Intel, per fondare una sua azienda, la Zilog, dove venne sviluppato lo “Z80”.
Grazie a questo microprocessore, nel giro di due anni e mezzo la Zilog crebbe da 11 a 1300 impiegati, con uffici internazionali, una fabbrica in Silicon Valley e una in Asia. Lo Z80 è ancora oggi fabbricato in grandi volumi, trentadue anni dopo la sua introduzione sul mercato.
Nel 1982, Faggin diede vita alla Cygnet Technologies e nel 1986 fondò la Synaptics, azienda che sviluppò i primi touchpad e touchscreen.
Attualmente Il fisico Italiano, ha gradualmente lasciato tutti i suoi impegni per dedicarsi ad un particolarissimo studio sulla “consapevolezza”, teso a dimostrare in termini scientifici in che modo  la consapevolezza umana sia legata alla realtà fisica.
La consapevolezza, permette all’essere umano di avere la percezione delle esperienze che sta vivendo e quindi di poterle rielaborare come dati autonomi, che andranno a loro volta ad arricchire ed ampliare il suo bagaglio esperienziale e mentale, aiutandolo in un certo senso ad evolvere continuamente e ad imparare dai propri errori.
In virtù di questa intuizione, Faggin quindi ha deciso di dedicare una fondazione no profit, attiva da alcuni anni, nella speranza di comprendere più a fondo i meccanismi che permettono all’essere umano di comprendere e analizzare se stesso in rapporto alle proprie esperienze per imparare costantemente, provando così ad aprire nuovi orizzonti anche per il futuro dell’informatica, dello sviluppo dei microprocessori e dell’intelligenza artificiale.
In una cerimonia svoltasi nel Febbraio 2002, l’allora Ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, ha riconosciuto il ruolo del geniale ingegnere veneto definendolo, tra l’altro, “Un alfiere della genialità e del lavoro italiano nel mondo”.
Tra i tantissimi riconoscimenti che Faggin ha ricevuto negli anni sono da segnalare nel 1988, il Premio Internazionale Marconi per la realizzazione del microchip e, nello stesso anno, la Medaglia d’oro per la Scienza e la Tecnologia da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nel 1994 a Faggin è anche stato riconosciuto il W. Wallace McDowell Award dalla IEEE.
Nel 2010 il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama gli ha conferito la “National Medal of Technology and Innovation” in una cerimonia tenuta alla Casa Bianca.
Durante la premiazione Obama, consegnando la medaglia disse “Lei ha davvero cambiato il mondo!”, e la sua risposta fu “pare di si!”.
In un interessante intervista su Telema di qualche tempo fa, Faggin ha spiegato di vedere così il futuro della ricerca tecnologica: “Abbiamo appena parlato dell’importanza dei semiconduttori, ma immagino che l’impatto che essi oggi stanno avendo sullo sviluppo tecnologico si rivelerà infinitamente inferiore rispetto a quello che, in tempi più lunghi, avrà la biotecnologia. E’ questo il settore del futuro, quello in cui si produrranno innovazioni oggi difficilmente quantificabili. Quando tra cinquant’anni ci si volgerà indietro a guardare il mezzo secolo trascorso, apparirà evidente che gran parte delle innovazioni delle quali l’umanità potrà beneficiare sarà connessa con la biologia. Gli scienziati avranno infatti finalmente imparato a controllare le singole molecole, trattandole come pezzi su una scacchiera, mentre per il momento la tecnologia è in grado di utilizzare soltanto insiemi di molecule”.
Durante Smau 2011, intervistato da Nicola Procaccio, (Communication and Media Relation Manager di Intel Italia e Svizzera) Faggin ha detto di vedere con molto interesse gli studi nel campo dei computer quantici, come frontiera futura per l’ulteriore sviluppo dei microprocessori e il superamento dei limiti imposti dalle attuali tecnologie basate su microcircuiti in silicio.
Oggi, nel 2016, possiamo dire con certezza che i primi computer quantici sono diventati realtà.
… ma non abbiate fretta… ne parleremo a tempo debito.

Tratto dal Libro “L’uomo e il computer, una storia dentro la storia“© di Daniele Bottoni Comotti

venerdì, novembre 25, 2016

Il primo Desktop computer al mondo


Riporto qui il mio articolo pubblicato sul blog "Futuro Sereno"
Lo sappiamo tutti, la situazione dell’Italia non è tra le migliori in molti settori, e fra questi di sicuro non fa eccezione la tecnologia.
Il “digital divide” (termine inglese che indica il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione come computer e internet, e chi ne è escluso) è ancora molto esteso e la situazione non sembra essere in miglioramento.
Ma c’è stato un tempo (una cinquantina di anni fa) in cui la tecnologia in Italia andava davvero forte.
La vicenda di cui vi racconto ha inizio nel 1961 nei laboratori di un’azienda tutta italiana la Olivetti.
Prima di addentrarmi nel racconto provo a descrivervi brevemente l’atmosfera che si respirava in azienda in quel periodo.
Era da poco avvenuta la presentazione dell’Elea 9003, (un calcolatore tutto italiano in grado di emulare e superare le prestazioni dei grandi calcolatori americani). Accadde però che, proprio quando le prospettive della nuova tecnologia avrebbero richiesto un importante svolta strategica e organizzativa, Adriano Olivetti partì dalla stazione centrale di Milano diretto a Losanna e proprio su quel treno morì stroncato da un infarto.
Il mercato Italiano non era ancora pronto per le innovazioni apportate da Olivetti e la situazione economica si fece difficile, tanto che, nell’estate del ‘64, la divisione elettronica venne ceduta alla General Electric.
Proprio in questo difficile contesto ha inizio la nostra vicenda…
Saltiamo sulla macchina del tempo ed impostiamo la data: il 1961. Lo sportello del nostro “Taxi del tempo” si apre… e ci troviamo nei laboratori di Ivrea, dove tre giovani progettisti sono radunati con fare pensieroso davanti a quello che sembra un circuito stampato.
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L’internet delle cose e gli attacchi Hacker

Riporto qui il mio articolo pubblicato sul blog "Futuro Sereno"

L’attacco che ha fermato internet ha fatto affidamento sui dispositivi IOT infetti.

Il fatto: 
Prendo spunto da alcuni fatti recentemente accaduti per parlarvi di un argomento che sta entrando sempre più a far parte della nostra vita quotidiana.
L’episodio più significavo ed anche inquietante di questa vicenda è iniziato per me con una email. Il 21 ottobre scorso ricevo una particolarissima comunicazione dal mio servizio di Social Media preferito, nella quale mi si avvisa che a causa di un problema in corso sulla piattaforma Twitter “dovuta ad un recente attacco informatico condotto verso molti siti americani”, alcuni servizi ad esso correlati potrebbero essere non funzionanti.
Vado a curiosare nel web e scopro che sono centinaia i siti web americani che hanno subito l’attacco. Ad essere penalizzati sono stati soprattutto gli utenti internet della costa est degli Stati Uniti, compresi quelli di Twitter, Financial Times, Spotify, Reddit, e-Bay e New York Times. Ancora qualche ricerca e comincio a capire, la vittima dell’attacco è la Dynamic Network Service Dyn, un’azienda che si occupa di gestire il DNS, (acronimo del termine inglese Domain Name Server) in soldoni, il dns funziona come l’elenco telefonico di internet cioè offre un servizio che traduce il semplice nome di un sito web in un indirizzo IP (numerico) che i computer usano per identificare sé stessi su una rete. Senza il cosiddetto Domain Name Server, per collegarsi a un determinato sito bisognerebbe digitare numeri e non parole nel browser. Ora comincia essere più chiara la ragione di tanti siti malfunzionanti, è come se in una grande azienda, i telefoni non riuscissero più a comunicare perché qualcuno ha manomesso il centralino.
Ma cosa è successo realmente? Come è stato possibile generare un tale attacco ad una tra le più grandi società informatiche al mondo? E’ La stessa Dyn che sul sito dell’azienda da una prima spiegazione: “A partire dalle 7.10 orario di New York (le 13.10 in Italia) “abbiamo iniziato a monitorare e mitigare attacchi DDoS contro la nostra infrastruttura”.
Per capire di cosa si tratta cominciamo a definire qualche termine (non abbiate paura, tenterò di farla breve !) 

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