sabato, luglio 11, 2009

Ecco il satellite che raggiungerà l’ultimo confine osservabile dello spazio-tempo e immortalerà il primo vagito del cosmo: di Marco Bersanelli


Ogni cosa è luminosa. E la luce che viene emanata dai corpi, terrestri o celesti che siano, porta informazioni sulla loro composizione e struttura. Ma anche sulla loro evoluzione. Infatti, la luce impiega del tempo a raggiungere l’occhio o il telescopio dell’osservatore e quando arriva a destinazione regala un’istantanea del passato. Per esempio, la luce del Sole viaggia 8 minuti prima di approdare sulla Terra, perciò noi vediamo il Sole in ritardo di 8 minuti, facendo così un piccolo salto indietro nel tempo. Per le galassie più distanti il ritardo si misura in miliardi di anni. Dunque, osservando a grandi distanze possiamo risalire nel tempo e nello spazio andando a ritroso, in un viaggio vertiginoso. Avvicinandoci addirittura a quell’istante che ha marcato l’origine dell’universo. E poi della vita. Fino al momento in cui tutto è iniziato. Non si tratta di fantascienza, bensì di cosmologia. Di una storia dal finale conosciuto, ma dall’inizio ancora da scrivere e che a Tempi viene raccontata come fosse poesia da un numero uno nel campo della fisica del nostro paese. Marco Bersanelli, docente di astrofisica all’Università degli studi di Milano e collaboratore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, è in procinto di partire alla volta di Kourou, nella Guyana Francese, dove assisterà al lancio della missione spaziale Planck Surveyor. Obiettivo: indagare l’origine dell’universo. Un sogno vecchio quanto la storia dell’uomo. E un’ambizione che dura da 17 anni, da quando «lavoravo in California con George Smoot, Nobel per la fisica nel 2006», ricorda Bersanelli, lo sguardo oltre la finestra del suo ufficio al Dipartimento di Fisica di Milano. «Era il 1992 quando il satellite Cobe per la prima volta ci ha raccontato qualcosa di inedito sull’origine dell’universo».


Andiamo con ordine. Cosa è Planck e che cosa ci farà vedere?
Planck è la prima missione dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea, dedicata allo studio del fondo cosmico di microonde, la prima luce dell’universo. Planck è un telescopio spaziale che osserverà il fondo dell’universo, l’ultimo confine osservabile dello spazio-tempo. Grazie a ricettori di nuovissima generazione capaci di cogliere segnali debolissimi a lunghezze d’onda di qualche millimetro, Planck fotograferà gli embrioni delle galassie, prima che queste prendessero forma, e ci darà un’immagine ad alta risoluzione di come era l’universo 14 miliardi di anni fa. Per la precisione 380 mila anni dopo il Big Bang, che in cosmologia è un niente. Come fosse il primo vagito del cosmo.


Come è possibile tutto questo?
L’universo inizialmente è molto denso e caldo, tanto che la luce primordiale è intrappolata. Ma lo spazio si espande e si raffredda. Dopo 380 mila anni, quando la temperatura scende sotto i 3.000 gradi, protoni ed elettroni si uniscono a formare per la prima volta gli atomi e in quel momento quasi d’improvviso l’universo diventa trasparente. Insomma la luce, che prima era imprigionata, come quando c’è la nebbia, si libera dalla materia e inizia il suo viaggio fino a noi. Planck, catturando questa “luce fossile” e le informazioni che essa trasporta, studierà l’universo appena nato con una precisione senza precedenti.


Perché è così importante studiare questo fondo cosmico?
Perché misurando le sue caratteristiche possiamo conoscere non solo la composizione e la struttura dell’universo delle origini, ma anche la sua storia, la sua evoluzione. Indagare cosa è successo in quel mare incandescente e primordiale, dove tutto prendeva pian piano forma, ci permette di dedurre i parametri in cui inquadrare la storia cosmica, conoscerne gli ingredienti, studiarne la geometria e l’espansione. E potremo anche verificare le teorie, fino ad oggi poco più che speculazioni teoriche, che cercano di descrivere che cosa accadde nelle primissime frazioni di secondo dopo l’inizio.


Un progetto ambizioso, tutto europeo, in cui l’Italia riveste un ruolo da protagonista.
L’équipe italiana, in particolare i gruppi di Bologna e Milano, hanno guidato lo sviluppo di uno dei due “occhi” di Planck. Ossia di uno dei due strumenti focali, quello che “vede” le lunghezza d’onda più grandi, e che insieme permettono di produrre l’immagine del fondo cosmico. Inoltre, i due centri di raccolta dati saranno a Trieste e a Parigi, essendo la Francia l’altro paese leader della missione.


C’è un collegamento con l’acceleratore Lhc del Cern di Ginevra, che secondo i giornali avrebbe dovuto portare alla fine del mondo?
Ah! La storia del buco nero (sorride, ndr). Certo, perché mentre Planck ci mostra una “diretta” del passato remoto, l’acceleratore Lhc riproduce in laboratorio, in un punto microscopico, le condizioni di quel passato di 14 miliardi di anni fa.


Cosa c’entra Planck con la cosiddetta materia oscura?
C’entra parecchio, perché la materia oscura è una delle grandi questioni aperte che riguardano la composizione dell’universo. Noi infatti, ad oggi, conosciamo solo il 4 per cento della materia e dell’energia che compongono l’universo. Rimane dunque un punto di domanda che pesa quanto il restante 96 per cento, con un 26 per cento composto proprio da questa materia oscura, che non vediamo, ma la cui presenza registriamo attraverso i suoi effetti gravitazionali. Più che oscura, dovremmo chiamarla invisibile o “cristallina” (se fosse veramente “oscura” la vedremmo benissimo!), tanto che crediamo si tratti di una forma di materia totalmente diversa da quelle che conosciamo. Il restante 70 per cento sarebbe composto, invece, di una forma di energia ancora più misteriosa, dark energy, responsabile dell’espansione accelerata dell’universo. Con Planck abbiamo l’ambizione di redigere un censimento estremamente dettagliato degli ingredienti dell’universo, anche di quelli più “esotici”.


Come è possibile conciliare il desiderio di raggiungere vette inesplorate con un umile realismo?
Effettivamente è un paradosso. Se dimensioni spazio-temporali così vaste da sfuggire alla nostra immaginazione sono un segno che invita all’umiltà, il fatto di poter comprendere anche solo una parte di tutto questo tenta l’orgoglio, l’ambizione di potere. Ma a ben vedere anche questa capacità di “leggere il libro della Natura”, come diceva Galileo, non è qualcosa che ci diamo noi. Nel rapporto dell’uomo con l’universo, secondo me, emerge la consapevolezza della nostra piccolezza e sproporzione, e anche del fatto che ciò che ci è dato conoscere è quasi un lusso, perché, come per l’arte o la poesia, noi potremmo sopravvivere anche senza. Eppure ci viene offerta una possibilità di conoscenza che non possiamo che accogliere come un regalo e una sorpresa allo stesso tempo. Con la commozione di essere partecipi di un dramma cosmico.


È questo che insegna ai suoi allievi?
Ai miei studenti cerco di insegnare l’astrofisica e attraverso questo spero che si accorgano della bellezza del mondo. E che sappiano porsi domande. È questo ciò che ho imparato dai miei maestri, primo fra tutti George Smoot, e tanti altri anche qui in Italia. Sono anche molto grato ai giovani ricercatori con cui collaboro da cui imparo moltissimo. Più si procede nella ricerca e più ci si rende conto di quanto la nostra conoscenza sia limitata e imperfetta. Si desidera quindi imparare sempre di più. Col passare del tempo cresce la coscienza della nostra ignoranza, ma cresce anche l’ammirazione per quel poco che si comprende.


In quest’anno di commemorazioni di due figure come Galileo e Darwin quanto è importante la divulgazione scientifica e come dovrebbe essere fatta secondo lei?
Si tratta di un tema cruciale e secondo me il termine divulgazione è ambiguo, quasi si trattasse di un “abbassarsi al volgo”, un pedaggio da pagare allo scopo di persuadere a tutti i costi i cittadini che pagano le tasse a sovvenzionarci, talvolta banalizzando i contenuti pur di risultare vendibili. Questa divulgazione strumentale a me non interessa. Il nocciolo della questione non riguarda infatti la divulgazione in sé, quanto piuttosto la mancanza dell’idea di popolo. Gli scienziati si concepiscono “soli”, non mandati da nessuno. Invece divulgare significa andare al cuore di ciò che muove l’interesse di chi ricerca, perché lì ci sarà qualcosa di interessante e comunicabile a tutti, qualcosa che ha un senso e una bellezza per tutti. Quindi comunicare l’importanza della ricerca va oltre le sue ricadute tecnologiche, pure importanti. Capire di cosa è fatto quel 96 per cento dell’universo credo che interessi tutti. O no?

di Elena Inversetti
Fonte : www.tempi.it
http://www.tempi.it/intervista/006549-marco-bersanelli